La fotografia

Cognome:         Degli Esposti ,
Nome:               Giovanni
nato a:              Bologna il 21 Agosto 1946
Stato Familiare: Sposato con due figli

Titolo di studio: Diploma di Perito Industriale ad indirizzo Meccanico

Specializzazione: Macchine Rotanti Pompe centrifughe ed alternative,Compressori centrifughi e alternativi, Turbine a vapore ed a gas ed ogni tipo di macchina rotante sia motrice che operatrice.
Lingue straniere conosciute: Inglese, Francese, Russo e un po’ di spagnolo, nel 1990-92 ero autonomo anche con il Cinese, ma poi la mancanza di pratica me lo ha fatto dimenticare.
Attrezzatura fotografica posseduta: NIKON D80 digitale, altri corpi macchina tradizionali: NIKON F4 , NIKON 801S, entrambi motorizzati, ROLLEYCORD 6X6 (Schnaider 75 mm /f=1:3,5) Obiettivi usati: Nikkor AF 20mm,f=1:2,8 / 24mm,f=1:2,8/ 50mm,f=1:1,4 60mm Macrof=1:3,5 / zoom 28÷135 mm, f=1:2,8 / zoom 70÷220mm f=1:2,8 / Moltiplicatore di focale Nikkor /flash Nikon S22 /treppiede/ingranditore Durst.

BREVE BIOGRAFIA DI GIOVANNI DEGLI ESPOSTI
Sono nato a Bologna nel 1946, mi trasferii a Roma con la famiglia nel 1957, dopo le medie iniziai a frequentare l’istituto Tecnico industriale Galileo Galilei dove mi diplomai Perito industriale Meccanico. Mi piacevano molto le macchine rotanti, pompe, compressori, turbine e mi specializzai in questa materia studiando molto di sera. Ho avuto anche molta passione per le lingue straniere, infatti, capii già da allora che senza saperne almeno due, non sarei andato molto lontano. La mia vita si è basata su un principio molto semplice suggeritomi dal padre di un mio compagno di banco:
“Ogni giorno dedica 1 ora del tuo tempo ad una cosa che ti piace, prima o poi qualcuno te la pagherà”.
Per prima cosa mi dedicai alla mia formazione professionale, sapevo infatti che la scuola mi aveva dato molto, ma non abbastanza, quindi mi sono dedicato all’approfondimento delle materie che più mi appassionavano. Tutti i libri di una certa importanza erano però scritti in inglese oppure in francese, fu indispensabile quindi, imparare innanzitutto queste due lingue straniere.

Mi applicai col metodo Linguaphone, tutti i giorni facevo almeno un’ora di esercizi di pronuncia con il giradischi. In seguito poi, frequentai anche a mie spese un corso serale di lingua Russa perché sul lavoro si prospettava l’idea di andare in terra sovietica per un lungo periodo e così decisi di imparare anche quella lingua. Durante la prima trasferta in Spagna nel 1971 imparai a parlare sufficientemente bene anche lo spagnolo.  Tale tipo di formazione tecnica mi ha permesso poi di seguire i lavori di montaggio, avviamento e manutenzione di numerosi impianti petrolchimici sparsi in 26 paesi del mondo.

La passione per la fotografia iniziò all’età di 12 anni, esattamente nel 1958, quando mi regalarono la prima macchina fotografica una Closter  di fabbricazione tedesca del tipo galileiano, cioè con il mirino laterale.

La Closter aveva, la messa a fuoco manuale, il tempo d’esposizione 1/60”, la posa; in più aveva 3 diaframmi di apertura per l’obbiettivo (8-11-16). Il fotografo che mi sviluppava e stampava i rullini, mi spiegò i primi rudimenti di fotografia: che cosa fosse l’apertura dell’obbiettivo, il diaframma, il tempo d’esposizione, la messa a fuoco, la profondità di campo, la sensibilità di una pellicola, la relazione che c’è tra diaframma e tempi d’esposizione, e tutti quei termini tecnici tipici di chi parla di fotografia.  Inizialmente non ero molto propenso a dedicarmi a questa passione in quanto i primi risultati furono molto deludenti. Le prime stampe delle foto non erano della migliore qualità e quindi agli inizi ero molto demoralizzato, finché un mio collega di lavoro nel dicembre del 1971 non m’indirizzò allo Studio Fotografico “Report’s ’71” di Piazza Zama. Questa fu la cosa più bella che quel signore ha fatto in tutta la sua vita lavorativa, in quello studio fondato pochi mesi prima da tre grandi fotografi della capitale lavoravano Piero Guazzaroni, Mauro Paravano e Ferruccio Trementini,(li ho inseriti in ordine alfabetico per non creare dei Permali perché tutti e tre nella loro specializzazione erano dei grandi professionisti.

Piero era l’addetto principalmente alla camera oscura e sapeva sviluppare e stampare ogni tipo di pellicola con grande maestria, anche se il negativo non era perfetto con i suoi giochi di luce con l’ingranditore era un vero maestro.

Mauro proveniva dal Cinema, aveva lavorato come fotografo di scena in qualche film western all’italiana e poi aveva una grossa esperienza nelle foto di cerimonie come sposalizi, foto di tutti i tipi anche gigantografie per negozi o appartamenti di gran lusso.

Ferruccio, il più anziano di tutti, molto introdotto nell’ambiente dei musei di ogni tipo era un fine riproduttore di quadri famosi ed aveva contribuito anche a fotografare delle opere importanti nelle varie basiliche di Roma che sarebbero poi servite per libri d’arte, poi era bravissimo anche nei ritocchi di fotografie che seppur belle presentavano dei piccolissimi difetti. Sia foto a colori ma soprattutto foto d’epoca in bianco e nero, con l’inchiostro di china opportunamente diluito correggeva le foto e addirittura i negativi da stampare.

Dopo aver fatto questa conoscenza ebbi delle grandi soddisfazioni vidi finalmente dei miei rullini sviluppati a meraviglia e delle mie fotografie stampate in modo magistrale e mi appassionai ancora di più.

Poi avvenne un fatto strano, nel 1968 Italo Reali, cognato della mia fidanzata, in una riunione di famiglia mi mostrò una macchina fotografica Rolley, 6×6 Reflex con doppio obiettivo, un vero cimelio come quelle che usavano i paparazzi. “Giovanni”, mi disse Italo, “Un mio collega ha ricevuto in eredità dal padre questa macchina ma non sa che farsene e mi ha chiesto se m’interessa acquistarla, visto che tu sei appassionato di fotografia ho pensato che potresti comprarla, lui vuole solo 30.000 lire, pagando 10.000 lire al mese, sarà tua!” Non ci pensai due volte ed acquistai subito quel gioiellino che ancora custodisco gelosamente e fu così che mi “iniziai” alla fotografia. Cominciai a scattare foto su foto che i miei tre amici inseparabili seppero subito valorizzare sviluppando e stampando i miei negativi perfettamente sia in Bianco e nero che a Colori e così mi appassionai ancora di più a questo hobby.

Con i risparmi compravo sempre qualche rivista fotografica che “divoravo” con piacere, la Rolley non mi bastava più, intorno al 1972-73 cominciavano a trovarsi delle macchine reflex che usavano pellicola cinematografica 35 mm, con ottica intercambiabile che però costavano delle cifre inavvicinabili, si parlava di due mesi di stipendio per comprare una macchina fotografica reflex corredata di un paio di obiettivi e del necessario flash.

Non avendo molti contanti disponibili nel 1973 acquistai una Topcon R1 usata, ma dopo aver scattato il primo rullo mi accorsi che era difettosa, fu così che da allora non acquistai più  attrezzature fotografiche usate; preferii aspettare qualche mese in più e nel 1974 mi comprai una Asahi Pentax nuova che aveva delle prestazioni leggermente inferiori alla Nikon ed alla Canon ma che costava quasi la metà ma avrei avuto 1 anno di garanzia, in caso di danni avrei potuto farla riparare senza spendere soldi.

Il mio lavoro con il gruppo ENI mi portò prima a Firenze, poi tornai a Roma e con l’impegno che sarei dovuto andare in giro per il mondo a seguire i montaggi d’impianti industriali. Viaggiando per lavoro, ho portato sempre con me la compagna inseparabile, e tutti gli accessori che di volta in volta hanno arricchito il mio bagaglio. Ho sempre fatto report fotografici sull’avanzamento lavori nei vari cantieri ed al termine di ogni cantiere ho scattato delle diapositive da inserire nei vari dépliant dell’azienda per la quale lavoravo.

Ho partecipato ad alcuni concorsi fotografici organizzati dal dopolavoro ENI ed a un paio di concorsi nazionali classificandomi con qualche foto anche ai primi posti.

Per queste classificazioni a buoni livelli il merito va certamente condiviso con i tre amici inseparabili di Report’s ’71 che contribuivano anche alla mia crescita in quanto fui prescelto per aiutarli nel compimento del loro lavoro in tante occasioni di cui ancora oggi ricordiamo degli aneddoti molto inusuali e simpatici.

Non mi sento assolutamente “arrivato” anche a 74 anni ogni giorno c’è sempre qualcosa da imparare e con la giusta umiltà, che però non vuol dire sottomissione, sono sempre pronto a confrontarmi.

Giovanni Degli Esposti
per i miei estimatori delle fotografie
Giò Degliesposimetri


Il mio Idolo: Henry Cartier Bresson



Articolo su
Henry Cartier Bresson, “l’eternità in un istante”

  «LA FOTOGRAFIA è, per me, l’impulso spontaneo di un’attenzione visiva perpetua, che coglie l’istante e la sua eternità». Ecco la filosofia ispiratrice di Henri Cartier Bresson il padre del reportage contemporaneo. HCB arrivava in punta di piedi sugli eventi, nelle situazioni che decideva di raccontare con la sua Leica. Fotografie dai toni naturali e mai esasperate. Cartier Bresson ha ispirato la fotografia del Novecento e i fotografi di almeno tre generazioni si sono dissetati al suo stile.

Tra i fondatori della mitica Agenzia Magnum con altri due mostri sacri del fotogiornalismo: Robert Capa e David Seymour.

Il suo credo: mai interagire con la realtà mai strumentalizzare con la propria presenza il «fatto» che si va a documentare. E il fotografo con l’anima del pittore spiegò così la sua scelta: «L’avventuriero che è in me, mi obbligò a testimoniare con uno strumento più rapido le cicatrici di questo mondo».

L’idea di Cartier-Bresson è che non si può imparare a fotografare, perché fotografare è un modo di vedere, ed è anche un modo di vivere. La macchina fotografica non è che un mero mezzo col quale fissare la realtà e del tutto realistiche pretendono di essere le sue immagini, scattate sempre con un obiettivo che restituisce un’immagine in tutto simile a quella vista dall’occhio (un 50 millimetri) e fedelmente riportate in stampa a pieno formato, senza escludere nulla di ciò che l’occhio ha visto nel mirino. La sua Leica diventa «un prolungamento dell’occhio» che può essere, a seconda delle occasioni, «un revolver, oppure il divano di uno psicanalista».

La fotografia è per Cartier Bresson un punto di vista sul mondo, che coincide necessariamente con quello del suo occhio educato dal disegno a scorgere l’armonia delle forme o a ricrearla mediante piccoli aggiustamenti.

Quasi un secolo di immagini attraverso tutto il mondo e tanti ritratti di personaggi importanti e gente comune, anonimi, ma di tutti Henri Cartier Bresson ha colto l’essenza del soggetto. Christian Dior, Andrè Breton, Renzo Rossellini, Arthur Miller, Martin Luther King.

E ancora Pablo Neruda, Simone de Beauvoir insieme a tanti volti sconosciuti di contadini messicani, operai russi e i gitani di Spagna fanno parte della galleria di ritratti che raccontano il Ventesimo secolo.

Da oggi a Roma al Museo di Palazzo Braschi si possono ammirare le foto di personaggi e anonimi scattate da Cartier Bresson: «Omaggio a Roma e ritratti» è l’antologia che grazie
alla Fondazione Henri Cartier Bresson, Contrasto e Zètema e il Comune di Roma celebra il grande fotografo. Entusiasmanti le istantanee di Roma riprese durante i suoi viaggi e soggiorni nella Città Eterna. Scorci di quotidianità che esaltano per la loro immediatezza e per la capacità di fissare attimi che sfuggono ai più. Le foto raccolte in questa mostra sono state selezionate dalla moglie di HCB, Martine Franck, anche lei fotografa che ci ha regalato significativi ritratti del grande fotografo, che come tutti i fotoreporter è sempre stato schivo di fronte all’obiettivo. Si devono a lei le foto degli ultimi anni della lunga vita di Cartier Bresson, quando tornato al disegno, trascorreva le giornate vergando con la matita i fogli bianchi. Così per riconquistare il proprio tempo, come egli stesso sostenne negli anni Settanta, quando ormai sessantenne, ripose la macchina fotografica e prese in mano la matita. «La foto è la velocità della strizzata d’occhio – dichiarò – Il disegno è prendere il proprio tempo, il solo lusso». Un ritorno così nel privato, lui così riservato sempre.

Cartier Bresson pur essendo la musa di tanti fotoreporter è stato anche colui che ha preso le distanze di morbose tendenze della fotografia contemporanea. Il suo rifiuto di vedere la fotografia come parte dell’arte ufficiale in forza della concezione che la fotografia era uno strumento di rivolta.

Filosofo con la Leica al collo lo si può definire questo grande vecchio, scomparso a 96 anni appena due anni fa e lasciando al mondo il racconto di un mondo attraversato da cambiamenti epocali, ritratti di scienziati e artisti che hanno segnato un secolo. I ritratti appunto, colti al volo, a volte nati per caso, altre frutto di studio silenzioso del soggetto. Ecco questo stare in punta di piedi caratterizza la fotografia di HCB. Non interagiva con il soggetto, anonimo o famoso che fosse. Quasi leggiadro entrava sulla scena e ne coglieva l’«istante», l’atteggiamento, lo sguardo, la ruga prendono vita e raccontano l’intimo dell’uomo.

E l’«Occhio del secolo», il pontefice del fotogiornalismo è capace di grande ironia e modestia. «Preferisco le foto tessera allineate nelle vetrine dei fotografi», sosteneva, ma i suoi ritratti rendono quell’anima che ora ci ritorna negli occhi fissi verso l’obiettivo di Cartier Bresson. E il ritratto, fissato sui grani d’argento della pellicola, resta fino alla fine della sua vita l’unica passione e l’unica ricerca di questo grande fotografo. Ritratti di amici per tentare ancora una volta di cogliere «l’istante perpetuo».MAURIZIO PICCIRILLI del 30 Maggio 2006

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